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IL PENDOLO

di Gian Marco Severini

“Chi è Eros?” questa la domanda alla quale i partecipanti del Simposio di Platone tentano, con non poche difficoltà, di dare una risposta. E’ il dio più giovane e più bello di tutti? E’ il più anziano in quanto primo motore di tutto l’universo? Non è un dio ma una semi-divinità irraggiungibile alla quale ci si può solo avvicinare ma mai possedere per intero (come la conoscenza)? Dal Simposio non ricaviamo una risposta univoca. E in effetti chi potrebbe esprimersi con totale chiarezza e sicurezza su un argomento tanto delicato? Non di certo un filosofo che per procedere sulla via della conoscenza deve applicare il dubbio come metodo di ricerca.

 

C’è chi passa una vita a prendersi cura dell’altro ed esaudisce i suoi desideri fino ad annullarsi, c’è chi, come Montale, scrive poesie del calibro di “Ho sceso dandoti il braccio” per la propria amata, pur tradendola sistematicamente. C’è chi viene travolto da un furor amoris passionale e carnale e c’è chi si rifugia nella razionalità anche in amore. Da dove iniziare un’indagine tanto complessa? Proviamo a vedere come si sono espressi i grandi della filosofia su questo argomento. La mia indagine analizzerà tre linee di pensiero: la prima è quella che ho denominato visione biologico-chimica dell’Amore il cui difensore è il nostro Schopenhauer, la seconda è una visione che possiamo definire marxista fondata sull’amore come proprietà e difesa da Twain e Nietzsche, mentre la terza è la visione strettamente filosofica esposta da Platone.

 

Schopenhauer definisce l’amore come un “impulso sessuale determinato, specializzato in modo prossimo e rigorosamente individualizzato”: un frutto della volontà di esistere. Un istinto. Perpetuare la specie è l’unico obiettivo dell’amore che non opera casualmente, ma seguendo quella che Darwin ha chiamato una “selezione naturale”. Secondo l’autore Amore è legato alla bellezza per rendere più efficiente il meccanismo di prosecuzione della specie, l’uomo si accoppia con chi, secondo una mera disposizione genetica, risponda meglio alle sue prerogative istintuali. Nessun sentimento etereo, dunque, solo una combinazione letale di sostanze chimiche, solo l’ennesima manifestazione di una volontà che attanaglia l’uomo e lo lega alla terra. Questa è la visione più disillusa ma anche, oserei dire, realistica in quanto ancorata al reale come scientifico. Non ha bisogno di molte giustificazioni teoriche, è evidente ed è anche la strada logicamente più agevole.

 

Chi si è spinto un po’ oltre è sicuramente Mark Twain. Comunista convinto e fortemente anticlericale, Twain, nella sua rivisitazione del mito di Adamo ed Eva, fa esprimere questi sul sentimento nuovo che provano per la prima volta: l’amore. Eva è confusa, non da risposte chiare, dichiara esplicitamente di non capire esattamente cosa le sta accadendo e che non sa dare una risposta. Prende in giro e deride un Adamo che viene dipinto come un fannullone dalle scarse capacità intellettuali. Eppure Adamo una risposta la fornisce, parlando di Eva afferma: “Trovo che sia un’ottima compagna. Penso che mi sentirei solo e depresso senza di lei, ora che ho perduto la tenuta”. Eva è la sostituta del Paradiso perduto. Proprietà per proprietà. Un amore che affonda le sue radici nei rapporti di appartenenza, una compagna che diventa un’arma gemella contro la solitudine e che allo stesso tempo Adamo sente di possedere materialisticamente e in modo utilitaristico.  Nulla di più attuale. Quanti omicidi per gelosia? Quante donne trattate come oggetti, sfruttate, perfino malmenate, per non avere esaudito i desideri del proprio padrone-amante? Eppure non basta, perché Nietzsche ci dice qualcosa di più. “L’amante vuole l’incondizionato, esclusivo possesso della persona da lui ardentemente desiderata; vuole un assoluto potere tanto sulla sua anima che sul suo corpo, vuole essere amato lui solo e prendere stanza nell’anima dell’altro e signoreggiarvi come il bene più alto e più desiderabile.”. Amore è l’espressione ultima della “Wille zur Macht” (volontà di potenza). Quello che chiamiamo Eros o Amore non è altro che un’espressione ultima dell’egoismo esistenziale: è strappare al mondo intero una sorgente di felicità e di piacere per farla nostra, unicamente nostra. Escludere tutti gli altri. Imporre il nostro dominio su colei che diciamo di amare, pur dimostrando, nei fatti, esclusivamente un amore incondizionato verso noi stessi e il nostro benessere, calpestando la felicità dell’altra.

 

Arriviamo così all’ultima tappa del nostro viaggio: Platone. Se amore è egoismo, come darne una legittimazione filosofica? Semplice, con la teoria dello specchio di Platone. Quante volte avrete sentito dire, o magari avete detto voi stessi, “capisco di amarti quando ti guardo negli occhi”? Platone sa spiegarvi perché sia così. Quando amiamo qualcuno i suoi occhi diventano uno specchio nel quale riflettiamo noi stessi, e così, pur credendo di amare l’altro, in realtà contempliamo la nostra figura, compiacendoci di come appare alla vista della persona che ci ama. “Amor ch’a nullo amato amar perdona”. Guardando gli occhi di chi ama non si può far a meno di amare a nostra volta. L’amore è un sentimento necessariamente e sostanzialmente biunivoco, altrimenti non è tale. Questa è la più ottimista delle visioni analizzate e possiamo notare come, pur partendo da una concezione narcisistica, approdi a conclusioni quasi stilnovistico-romantiche.

 

In definitiva possiamo affermare che l’Amore, per un primo momento, nella sua fase embrionale, è la più grande, la più bella, e come tale, quando viene meno, anche la più disastrosa delle illusioni. Ci getta in uno stato di follia simile all’ubriacatura, ci rende insensibili spesso agli stimoli esterni, dipendenti dall’altra persona, ci fa provare fortissime scariche di felicità per attimi fuggenti. E questo è il periodo più semplice. I primi tempi sappiamo amare tutti, ci sembra la cosa più bella del mondo e l’unica cosa che conti davvero. Per l’altro si farebbe di tutto. Ma non c’è merito alcuno. Qui fa tutto Amore, noi subiamo e basta. Quand’è che iniziamo davvero a dare significato e valore a tutto ciò? Quando l’illusione finisce. Quando l’anestesia cessa il suo effetto e si ritorna alla realtà. Quando è passato talmente tanto tempo che Amore vuole essere meritato, guadagnato. Ed è lì che l’uomo dimostra tutta la sua capacità di amare, di voler bene a qualcuno, di starle accanto sempre. In questa fase l’uomo conquista Amore dispettoso ed illusorio e lo culla, i tempi si dilatano, la felicità non viene scaricata a galloni come i primi tempi, ma goccia a goccia, lentamente, in maniera continuativa seppur inquinata di tanto in tanto da qualche arrabbiatura, da qualche incomprensione, ma mai annullata del tutto. Tutto ciò è reale, o sono solo belle parole? Non so, fatto sta che, in definitiva, nonostante le mille contraddizioni, tutti noi preferiamo la tempesta amorosa alla calma noiosa di un’apatia fredda e sterile.

Tra inganno e realtà: alla ricerca della Bellezza Collaterale

Morte. Tempo. Amore.

Questo l’ordine con il quale tre attori di un piccolo teatro newyorkese si presentano ad Howard, un giovane imprenditore di successo che ora rischia di far fallire la sua azienda pubblicitaria e di mandare sul lastrico i suoi dipendenti con le loro famiglie. Will Smith interpreta quest’uomo di successo sull’orlo della pazzia, colpito a morte da un trauma dal quale sembra non potersi più riprendere: la morte della figlia. Figlia che per l’intero film rimane senza nome, quasi fosse un’entità astratta. Questo avvenimento perseguita Howard e non gli lascia pace. I suoi colleghi, tra cui Simon, giovane padre di famiglia malato di cancro che nasconde la sua malattia, vogliono dimostrare l’insanità mentale del loro capo per salvare l’azienda e, di conseguenza, loro stessi con le proprie famiglie. Sarà Simon in particolar modo a spingere per vendere l’azienda pubblicitaria: non può rischiare di lasciare i suoi figli senza un futuro. Howard nel suo furor solipsistico inizia a smettere di parlare, passa il tempo a costruire Domino complessi, si rinchiude in casa e passa intere giornate al parco ad osservare i cani che giocano, fin quando, un giorno, scrive ed imbuca tre lettere che vengono recuperate dall’investigatrice privata affidata al caso.

Morte. Tempo. Amore.

Questi i tre destinatari di lettere apparentemente senza senso, prodotti di un folle, ma che nascondono tutto il dolore di un padre che si trova a dover affrontare la morte prematura di una figlia. A Whit, uno dei colleghi, viene un’idea: entrare nella mente del folle. Far credere ad Howard che le lettere siano arrivate ai destinatari e che questi siano pronti ad affrontarlo a muso duro. Così i tre colleghi si recano in un piccolo teatro della Grande Mela, l’Hegel Theatre, nome a mio parere non casuale, e assoldano tre attori: un’anziana bianca (Morte), un giovane teppistello di colore (Tempo) e un’affascinante ragazza (Amore). Tutti e tre si presentaranno ad Howard e da qui in poi ogni parola sulla trama sarebbe spoiler. Concentriamoci ora sul senso di questo film che può essere definito, a mio modestissimo parere, un capolavoro. L’intera costruzione si fonda su una doppia citazione letterario-cinematografica: da una parte non ho potuto fare a meno di pensare immediatamente all’ Enrico IV di Pirandello, l’intera messa in scena sembra il calco del dramma dell’artista del Caos, Howard come Enrico IV impazzisce e i suoi amici e parenti più stretti gli fanno credere che lui sia dalla parte della ragione, che tutto ciò che sta vivendo sia la realtà, che veramente Morte, Tempo e Amore conversino con lui sotto mentite spoglie. Sia Enrico IV che Howard vengono ingannati “a fin di bene” per la loro “salute”, eppure solo il folle Howard sarà in grado di cogliere ciò che tutti gli altri sani hanno ignorato: la bellezza collaterale. Il bello del brutto. L’ordine nel Caos. Dall’altra parte è evidente la citazione al Truman Show e alla realtà come finzione. E che dire dell’invettiva di Tempo? Sembra sentir parlare Seneca. “La colpa non è mia, siete voi che mi sprecate! Io vi ho fatto un dono e voi non fate altro che gettarmi via, ingrati.” questo il succo del discorso di Tempo. Notate la spaventosa somiglianza con il De Brevitate Vitae del filosofo latino? Seneca vive nelle parole di un giovane attore, arrogante e spavaldo, di un piccolo teatro di New York. “Non exiguum temporis habemus, sed multum perdimus. Satis longa vita et in maximarum rerum consummationem large data est, si tota bene conlocaretur.”. Non accusiamo Tempo di colpe che non ha. E che dire della magistrale interpretazione di Amore, pur nella sua debolezza? Lei è l’unica che piange, che si scusa con Howard per l’inganno, non riesce ad essere attrice come gli altri due e proprio per questo risulta, infine, la più realistica, la più umana. Ella si fa portavoce di una corrente travolgente di autori asserendo che l’ Amore è ovunque, non puoi combatterlo, andargli contro significa rinunciare a vivere, lezione che imparò bene l’ Ippolito di Euripide, mandato in rovina dall’ira di Afrodite rifiutata. L’Amore è, come dice l’attrice, anche nella Tempesta. Anzi, specialmente in essa. Ed è realizzare ciò, che ci porta ad apprezzare la Bellezza Collaterale del mondo. Questo film mi ha lasciato, oltre a tanti pensieri, una domanda in testa: cos’è Amore? E’ Illusione? Esiste? Ha davvero senso parlarne o, richiedendo una coerenza estrema, probabilmente disumana, è inutile starne a parlare? La risposta non ce l’ho, so solo che vedendo un’interpretazione da Oscar come quella di Will Smith quando dice, riferendosi alla figlia scomparsa: “Però io ora sono qui senza lei a tenermi la mano cazzo.” una speranza resta. Non solo nell’amore, ma anche in un certo tipo di cinema, quello fatto per emozionare.

L’era del tutto e subito

Viviamo nella nuova età dell’ansia. La storia è ciclica e i grandi mali dell’animo umano tendono a tornare eternamente. Quella che nel ventesimo secolo è passata alla storia, nell’Inghilterra post-vittoriana, come “Age of Anxiety” sembra non distaccarsi troppo dai sentimenti che caratterizzano la generazione attuale. Le cause sono profondamente diverse, ma gli esiti differiscono veramente di poche virgole. Se ciò che turbava gli animi degli inglesi del Novecento era la paura e il pericolo della guerra, una sfarzosa società che nascondeva mille contraddizioni e violenze, vite di giovani uomini mandati al macello nella Grande Guerra, le preoccupazioni di questa generazione sono molto meno “pratiche”. La Guerra è stata definitivamente istituzionalizzata nel mondo occidentale. Non si gettano più bombe, non si spara da una trincea contro il nemico, ora si è tutti intimamente connessi, gli individui, le economie, ciascuno di noi dipende, nel suo benessere, dall’altro, e questo da fuori lascia trasparire pace, industriosità e cooperazione. Ma è solo la punta di un iceberg enorme.

 

In primo luogo è definitivamente ed irreversibilmente cambiato il rapporto tra tempo e valore. Le cose, da sempre, non possiedono un valore in sé, insito nella loro materia o nella loro essenza, le cose assumono valore nel momento in cui noi fondiamo ad esse il nostro tempo, la nostra dedizione ed il nostro lavoro. Così una bella vacanza assume valore nel momento in cui ce la siamo meritata, quando dopo un anno di fatica, con il frutto del nostro sforzo, decidiamo di dedicare del tempo a noi stessi, e lo facciamo con piacere, convinti che ci meritiamo quel mare, quel sole, quella spiaggia, quel bell’hotel e quel relax. Al contrario se quel tempo di un anno di fatiche, improvvisamente si azzerasse, e noi iniziassimo a fare la vita dei pascià, ogni giorno sdraiati in riva al mare, serviti e riveriti, al secondo mese saremmo nauseati, ci sentiremmo improduttivi, inutili, annoiati. Cosa succede nel momento in cui gli uomini cambiano il loro modo di sentire il tempo? Questo meccanismo salta. Il tempo diventa dinamite.

 

Ci ritroviamo così improvvisamente catapultati in un mondo in cui le frazioni temporali sono infinitamente più ristrette. Il tempo cessa di appartenerci. Il valore non può più essere calcolato in base al tempo perché se si continuasse a fare così, ogni cosa diventerebbe il nulla. La velocità diventa una prerogativa esistenziale. Siamo tutti affannati ogni giorno dai mille impegni, da un mondo che ci vuole subito ovunque e che fornendo velocità ne richiede altrettanta. Questo è il mondo dei fast food, dei fast shop e delle nuove aziende di socializzazione istantanea: i social network.

 

I social network forniscono al nostro corpo ogni attimo, ogni secondo, nel battito di un click, quella che Simon Sinek ha chiamato “Instant Gratification”. Gratificazione istantanea. Veloce, velocissima. Il tempo cessa di esistere. Il valore scompare. Nell’arco di brevi frazioni di secondo il nostro corpo si riempie di dopamina creando una sensazione di gratificazione pari a quella che si ha quando si mangia un buon cibo, quando si fa sesso e genera quella sensazione che molti descrivono come Felicità. I “dopamine producing devices”, ovvero nient’altro che i cellulari che tutti noi portiamo in tasca, sono dispense di felicità istantanea. Non dobbiamo guadagnarci nulla. Il tempo diventa liquido, piatto, il valore è definitivamente dissolto. Pubblichiamo decine di foto ogni giorno, di stati, di video solo ed esclusivamente per quel momento in cui, accendendo lo screen vediamo un numero elevato di likes. Instant Gratification. Dopamina. Felicità. E questo identico meccanismo si rispecchia in qualsiasi altro processo: il lavoro, la soddisfazione professionale, lo studio, i legami affettivi ecc. I social network sono solamente l’esempio più evidente. Risultato? Non sappiamo più aspettare.

 

E cosa accade ad un’intera generazione, totalmente innocente, che si ritrova a conoscere un sentimento come la felicità, che normalmente richiede dedizione, sforzo, impegno e tanto, tantissimo tempo, in un mondo che di tempo non ne vuole sapere? Nel momento in cui anche le emozioni vengono inglobate da questo assurdo gioco di velocità e gratificazione, di pubblica approvazione e vita virtuale, quando ciò che avrebbe bisogno di attimi infiniti viene sacrificato in nome del tutto e subito si cade nel baratro dell’ Angst, l’angoscia esistenziale.  Diventiamo dipendenti dell’istantaneità e degli schermi sui quali questa appare e i sintomi sono evidenti. A cena si parla sempre di meno, e si pubblica sempre di più. In vacanza non si pensa a godersi il momento, perché di fatto quel momento non è stato guadagnato, è solo il frutto della velocità, e l’uomo deve trovargli un altro valore: la pubblica approvazione. Se non è online, è come se non fosse accaduto. Se non lo possono vedere tutti, la dopamina non entra in circolo. Se non accade tutto ciò, l’uomo perde la capacità di essere felice.

 

Se nel novecento i grandi mali di Solitudine e Incomunicabilità erano frutto di una guerra esplicita ed esterna, gli stessi identici mali sono ora frutto di una guerra istituzionalizzata e velocissima. Tutti noi siamo, chi più chi meno, convolti in questo meccanismo per certi versi malato. Ma come uscirne? Non esiste una formula universale. Di certo bisogna iniziare a farsi qualche domanda in più e smetterla di dare tutto per scontato, come se ci fosse dovuto. Meno “voglio tutto ora” e più “farò di tutto pur di arrivare dove voglio io”. Ma non è facile, e non si tratta solamente di lasciare il telefono da parte quando si cena con altre persone, anche se quello costituisce un buon inizio. Si tratta piuttosto di tirarsi fuori da un gioco al quale tutti intorno a noi sembrano partecipare. Si tratta di una scelta coraggiosa, fuori dal coro. Si tratta di lasciare agli altri lo sfarzo barocco dell’esteriorità e iniziare a costruire una cittadella interiore. E’ un procedimento che richiede tempo, quello vero, quel tempo che crea valore e ci ricompensa in autenticità. Rinunciare all’istantaneo e scegliere il duraturo.

Fine vita: Dio è morto davvero?

Da Dj Fabo alle richieste di eutanasia in Svizzera, il fine vita è tornato al centro delle polemiche e proprio in questi giorni, tra rinvii ed aule deserte, si discute un disegno di legge che ha in mano le sofferenze di tanti esseri umani. Ma cos’è, esattamente, che si sta discutendo se approvare o meno? Il biotestamento (o meglio, la dichiarazione anticipata di trattamento): un documento attraverso il quale ciascuno di noi lascia per iscritto le proprie volontà sul da farsi nel caso in cui, per una serie di eventi accidentali, ci si trovasse in uno stato di incapacità di esprimere il proprio diritto di acconsentire o non alle cure proposte. La questione giuridica sta proprio in questi termini, ma lo polemica va oltre, essa si fonda su un assunto nettamente morale. Esistono vite non degne di essere vissute? Chi può giudicare se una vita è degna o meno di essere vissuta? Vi è una soglia al di sotto della quale è meglio cessare di esistere?

 

Intorno a queste domande si sono articolate svariate posizioni ed opinioni diverse, poco omogenee e molto differenziate al loro interno, ma per comodità esplicativa possiamo riunirle in due macrocategorie: chi sostiene la santità della vita e chi a questa oppone la qualità della vita. La prima posizione si fonda su un assunto fortemente morale: la vita è un dono indisponibile, non possiamo assoggettarla alla nostra volontà o al nostro soggettivo giudizio, solo Dio può decidere quando e se una vita debba giungere al proprio termine ultimo. Questa è la posizione sostenuta da buona parte degli ecclesiasti e dalle correnti religiose; si interseca alla discussione sulla procreazione espressa nell’enciclica “De casti connubii” di Papa Pio XI, e si fonda su un dogma: non puoi rinunciare al dono divino. La seconda posizione, invece, fa leva sull’esistenza di “wrongful lives”, di vite al di sotto di una certa soglia, stabilita dal soggetto, e dunque indegne di essere vissute. E’ sostenuta da buona parte dei liberali, dei filosofi utilitaristi e dai sostenitori di una visione laica, secolarizzata e amorale della politica.

 

A questo proposito vale la pena aprire una parentesi, per completezza d’esposizione. La santità della vita, pur essendo nata come posizione religiosa, è stata sostenuta anche da filosofi come Ronald Dworkin, ma in ottica laica: il predicato “è sacra” si secolarizza e assume così un significato di inviolabilità e irrinunciabilità. Ed è qui che si innesta il paradosso tipico dei nostri giorni. Per capire cosa voglio dire, non possiamo fare a meno di invocare il padre del liberalismo classico e uno dei più grandi filosofi politici di sempre: John Locke. Il filosofo inglese nel 1690 pubblicò i “Due trattati sul governo” opera maxima, insieme al “Leviatano” di Thomas Hobbes, del contrattualismo moderno. Al suo interno Locke espone il concetto di neutralità della legge, in breve: la legge deve distaccarsi quanto più possibile da un’approvazione della coscienza ovvero non deve fondarsi su basi moralmente esigenti. E questo con un obiettivo ben preciso: creare una società plurale e pluralista, all’interno della quale siano rimesse ai singoli le scelte riguardanti la propria coscienza. Apoteosi del laicismo in un’ Europa dilaniata dalle guerre di religione, un visionario, un anticipatore. Eppure non è così semplice. Perché quando Locke si trova costretto a dover giustificare l’impossibilità di un patto con un monarca assoluto, oltre a rifarsi all’argomento basato sulla razionalità, fa leva proprio sull’argomento teologico della santità della vita: non possediamo il diritto sulla nostra vita e, dunque, figuriamoci se possiamo deferirlo a un sovrano o ad una personalità esterna. Paradosso: il sostenitore della legge neutrale e di uno Stato minimo si affida all’argomento teologico per contrastare il suo peggior nemico, l’assolutismo.

 

E qui si fonda il contrasto morale nel quale viviamo noi oggi: combattuti in un mondo che aspira ad essere “senza Dio” eppure sente ancora strette le catene di una teologia invadente che, permeata nel tessuto della società e dei singoli, impedisce a questi ultimi di scegliere fino in fondo, imponendosi come Stato e come legge. E se è proprio sulla scelta che si fonda l’essenza del’umanità, quale scelta più consapevole di quella sulla propria esistenza? Ma a questo noi, nella religiosissima Italia del 2017 (e badate bene che quando dico religiosissima intendo una forma mentis, non una confessione particolare) non siamo pronti. Lo Stato, la società, si fida poco della discrezionalità dei singoli: Dio, qui, oggi, non è morto per niente! Perché avvenga la morte di Dio bisogna avere grande fiducia nella capacità decisionale degli essere umani, di tutti gli esseri umani, ma a questo si è sempre preferita una strada già percorsa, già tracciata. Ed è in questa situazione di forte dilemma e di scontro morale che si stagliano le sofferenze di tante persone come Dj Fabo, costretti a sperare.  Una speranza che, forse, non fa poi così bene, perché non tutti siamo nati per sperare, alcuni, semplicemente, desiderano arrendersi prima. Concludo con una citazione di Irvin D. Yalom tratta dal suo libro “Le lacrime di Nietzsche” nel quale il filosofo inveisce contro il dottor Josef Breuer, mentore di Freud, sostenendo con fermezza l’autoconsapevolezza e la validità della scelta del singolo:

 

“Ogni individuo è padrone della propria morte. E ciascuno dovrebbe metterla in atto a modo suo. Forse – lo dico in termini dubitativi- esiste un diritto che ci consente di togliere la vita a un uomo. Ma non ve n’è alcuno per il quale possiamo togliergli la morte. Ciò non è conforto. E’ crudeltà!”

 

Con la speranza di poter tornare a scegliere, ognuno per sé.

Divieni ciò che sei

Poche sere fa, assalito da un’insonnia febbrile, decido di accendere la televisione sperando mi conciliasse il sonno. Confuso e rintronato – erano pur sempre le due di notte – inforco gli occhiali e leggo “intervista a X, professore universitario e filosofo”. Filosofo…in televisione un filosofo! E non è Massimo Cacciari né Diego Fusaro. Qualcosa di unico e raro, non potevo perdermelo, non che avessi  nulla di meglio da fare. Alzo il volume e sento parlare un uomo vetusto, sull’ottantina, dall’espressione buona e accondiscendente, gli occhi sognanti come quelli di un bambino, la voce un po’ tremula, ma sicura, come quella di chi sa cosa e come lo deve dire. Dopo aver parlato della sua vita, delle sue esperienze, dei suoi amori, quelli leciti e quelli adulterini - pur riaffermando a più riprese che il suo unico vero amore fu la moglie, le altre al massimo passioni fugaci – il giornalista gli chiede: “Ma, in definitiva, essere filosofi è un mestiere?”. L’intervistato accenna un sorriso beffardo, come quello di chi para un colpo in una lotta, e dice: “Beh, lo è come è un mestiere essere uomini”. Di questa risposta fulminea e illuminante è notevole la scelta dei vocaboli, il filosofo dice“essere uomini”, non “essere umani”. Nel concetto di humanitas rientrano molte cose, qualità, virtù, che non appartengono alla maggioranza delle persone, me compreso. Essere umani restringe, chiude, serra, crea un'élite di persone che – per definizione- la pensa in maniera simile, fosse solo per la base da cui partono. Essere filosofi significa essere uomini. Dire ciò implica aprire le porte della filosofia a chiunque abbia il coraggio di spiare all’interno, di buttare uno sguardo sul mondo della consapevolezza, sul mondo dell’abisso e del caos, della ricerca incessante di una verità che fugge, che non si fa avvicinare da nessuno e che forse neanche esiste. La verità è un mezzo, non è uno scopo.  Filosofare, reinterpreto David Grossman, significa essere il coltello con il quale scaviamo dentro noi stessi. Significa, in definitiva, scegliere. E tutti noi scegliamo, la scelta è prerogativa dell’uomo. Gli animali sono guidati dall’istinto, l’uomo sceglie sempre, razionalmente, irrazionalmente, sentimentalmente, tradizionalmente, compie sempre una scelta. E l’unico modo per cessare di essere filosofi e, dunque, di essere uomini, è smettere di scegliere. Bendarsi gli occhi e lasciarsi guidare da scelte altrui, compiere un’alienazione inconsapevole della vita individuale a favore di una massificazione sotto il segno dell’illusione. E’ così che si cade in quella che Heidegger definì, in maniera quasi romantica, vita inautentica. Inautentica perché non nostra, perché scelta da qualcun altro.

“Il Pendolo” è, e sarà, nient’altro che questo: un percorso verso la consapevolezza. Un percorso fatto di riflessioni, immagini, musica, esperienze di vita, condivisioni, citazioni, spunti artistici e letterari il tutto volto a strappare, distruggere, gettare nella spazzatura quel velo sottile che troppo spesso ci impedisce di guardare la realtà con i nostri occhi. Quella che con un eufemismo abbiamo chiamato “coerenza” e di cui capita di farsi vanto, si è trasformata in timore di cambiare idea, è seguire un dogma ad occhi chiusi.  

“Il Pendolo” sarà il telecomando con il quale, per qualche minuto, metterete a tacere un mondo che fa troppo chiasso. Siamo una generazione a cui è stato impedito di rimanere soli: sempre connessi, sempre in mezzo a tutti eppure profondamente isolati da noi stessi. Il Pendolo è per tutti coloro che avranno voglia e coraggio di rimanere soli, almeno per un po’, tra caos e incoerenza, per ritrovare se stessi. Perché questo nome? Ovviamente il tributo è ad Arthur Schopenhauer, ma non solo. E’ un tributo a tutti coloro che sono riusciti con forza, dedizione e molto coraggio ad aprire gli occhi, a complicarsi la vita, a darsi risposte difficili e a non farsi ingannare dal bello che ci mettono davanti per nascondere la complessità e l’assurdità del reale.“Divieni ciò che sei”: questo è il nostro imperativo. E oggi vi invito a scoprirvi, di nuovo, uomini e filosofi.

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