TREDICI: SUICIDIO, SCELTA E RESPONSABILITA’
- Gian Marco Severini
- 29 mag 2017
- Tempo di lettura: 4 min

Da “Tredici” alla “Blue Whale” sembra che il mondo vada incontro ad un nuovo wertherismo. Si ricomincia a parlare e a sentire di un vecchio tabù: il suicidio. Da quello stoico difeso da Seneca al rifiuto compiuto da Schopenhauer, dall’“essere per la morte” di Heidegger all’incapacità di Cioran, il suicidio è sempre stato un interrogativo trasversale a tutta la filosofia. Oggi, però, cambia significato. Nella società votata ad un nichilismo passivo della peggior specie, tutto è lecito, anche suicidarsi per capriccio, per ripicca, o, addirittura, per gioco.
Individui incapaci di trovare un’alternativa scelgono di porre fine alla propria vita e la colpa è tutta degli altri. Ma andiamo per gradi. Per chi di voi ancora non avesse visto Tredici si tratta di una serie tv basata sulla storia di una ragazza, Hannah Baker, che, prima di suicidarsi, lascia tredici cassette con su registrati motivi e colpevoli del suo gesto estremo. Clay, suo migliore amico ed amante, ascolta queste cassette, e tenta di vendicarla.
A quanto pare il regista di questa serie ha scoperto qualcosa di sensazionale, originale ed impressionante: la società è spietata. Pensate un po’, ha scoperto che “lupus est homo homini”! Dovreste stupirvi, esaltarvi, saltare sulla sedia per questo lampo di genio! Appena duemiladuecentosettantadue anni dopo Plauto, cinquecentocinquantuno dopo Erasmo e quattrocentocinquantatre dopo Owen, il regista di Tredici ha scoperto che il mondo è una tana di serpenti. Ma analizziamo il personaggio di Hannah Baker. Ci sono almeno tre motivi per i quali non posso scagliarmi in sua difesa.
Primo su tutti il suo sentimento folle di vendetta. Il gesto di lasciare quelle tredici cassette che assomigliano in tutto e per tutto ad una condanna a morte sono una prova evidente del suo egoismo bieco. Una condanna a morte di tredici individui, che sicuramente hanno delle colpe importanti, ma, se tutti dovessero essere puniti per comportamenti simili (fatta eccezione per l’episodio ben più grave dello stupro), allora un buon 80% degli adolescenti dovrebbe essere messo alla gogna. Hannah scarica interamente il peso di una decisione presa in autonomia su un’entità astratta chiamata società trovando capri espiatori in maniera sistematica. Lei, però, non si inserisce neanche in una cassetta. Lei non è tra i motivi per cui ha deciso di porre fine alla sua vita. E’ solo colpa degli altri.
In secondo luogo Hannah Baker è affetta da una totale, radicale, profonda mancanza di forza di volontà. Sembra travolta dagli eventi, non vi è una singola puntata, una singola scena, nella quale lei prenda una decisione in autonomia e la rispetti. Nessuno spirito di iniziativa, nessuna voglia di difendersi dai colpi che le infliggono i ragazzi che fanno apprezzamenti sul suo sedere o dagli amici che la tradiscono o abbandonano. Nulla. Non fa altro che accumulare tristezza e rabbia.
Terzo punto è sicuramente il suo vittimismo patetico. Una giovane donna di sedici anni che non ha opposto una minima resistenza alle ingiurie, alle calunnie e perfino al suo stupro pretende di essere compianta, giustificata e vendicata. Amplifica la sofferenza dei suoi genitori, dei suoi amici e dei suoi cari, decidendo di uccidersi e di puntare il dito contro la qualunque, lo stesso dito che quand’era in vita non ha mai alzato per difendersi da ciò che le stava accadendo.
Infine, l’assurdo irrealismo del suo personaggio. Un suicida è una persona che ha perso la capacità di provare emozioni o sentimenti a tal punto da non avere nemmeno paura del dolore per la morte. Hannah Baker è accecata dalla rabbia e dal senso di vendetta. Prova emozioni forti molto lontane dallo stato atarattico tipico della depressione dei suicidi. Dice di non provare nulla, ma organizza in maniera maniacale ogni dettaglio del suo folle piano di vendetta.
Se un tempo si ricorreva al suicidio come extrema ratio perché costretti dal tiranno di turno e lo si faceva in maniera quasi eroica e sicuramente consapevole, come ultimo saluto ad un mondo nel quale non ci è più dato vivere, oggi il suicidio è diventato una reazione come un’altra che esula dal campo elettivo dell’individuo e permea la sfera della società come un’onta collettiva.
Il messaggio lanciato da questa serie tv, come anche da molti commenti fatti sulla vicenda Blue Whale, è profondamente deresponsabilizzante e pericoloso. Specialmente in un mondo che ha perso la percezione della vita, il senso della scelta, e la gravità di certi gesti, lasciar trasparire una legittimazione morale del suicidio come rinuncia può creare conseguenze psicologiche drammatiche nelle generazioni che si formano vedendo e parlando di questi programmi televisivi. Se non dipende da me, se è colpa degli altri, allora io non posso farci nulla. Questa sembra essere la morale.
Se è sicuramente vero che bisogna lavorare ad una sensibilizzazione della società, per quanto personalmente ritengo questo compito se non impossibile, quantomeno estremamente arduo, è anche vero che una soluzione efficace va trovata dentro noi stessi. Bisogna costruire una fortezza interiore.
“Tu auspichi una cosa difficile alla genìa umana: l’innocenza. Che le offese non si facciano, è problema che riguarda chi è disposto a farle, non chi le sa sopportare qualora gli si facciano. Anzi, forse la saggezza mostra meglio la sua forza restando tranquilla tra gli assalti, come la perfetta sicurezza mette in piena luce un comandante, forte di armi e uomini, in terra nemica.”
Seneca, De constantia sapientis
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